Thinking
Design e futuro: responsabilità
Move fast and break things.
Questa, insieme a disruption, sono state alcune delle parole chiave degli ultimi 10 anni. Mi ha sempre fatto riflettere questo riferimento all’essere dirompenti, alla velocità, ma anche al rompere. Come se fosse una cosa insita nel cambiamento e, anzi, desiderabile in un progresso che deve essere rapido per definizione.
È innegabile che servizi come Facebook, Twitter, Airbnb o Uber abbiamo completamente rivoluzionato il mercato o ne abbiamo creati di nuovi. In questo, hanno rotto i modelli precedenti e ne hanno stabiliti di nuovi, ma hanno creato anche altre fratture, o quanto meno delle crepe che oggi siamo in grado di osservare più distintamente.
Dall’aumento degli affitti a breve termine e le conseguenze sulla fisionomia di alcuni quartieri e di alcune città, e delle persone che quei quartieri li abitano, al traffico generato sulle strade dai driver in cerca di passeggeri, agli innumerevoli dubbi circa la privacy e l’utilizzo dei dati personali sollevati nei confronti di Facebook e di altri servizi.
Lo scorso anno, in una delle ultime conferenze a cui ho potuto partecipare di persona prima della pandemia, ho ascoltato Khoi Vinh, Director of Product Design in Adobe, tenere un lungo talk su questi temi e sollevare interrogativi circa il ruolo del design in questo momento storico. È un talk che ha risuonato dentro di me per diverso tempo, riaccendendo e alimentando dubbi e domande.
Khoi Vinh, “Leading design out of obscurity” — Leading Design Conference 2019, New York
È giusto sottolineare anche come aziende come Airbnb, Uber e Facebook abbiamo contribuito in maniera sostanziale all’ascesa della rilevanza del design, in particolare del design di prodotti e servizi digitali, avanzando la disciplina, legandola definitivamente al business nella misurazione dell’efficacia e dei risultati, e accelerando discussioni sulla gestione dei team di design, sulla managerialità nei team di design e nella creazione di percorsi di carriera per i designer, e infine dando un impulso determinante nell’adozione di sistemi di design su scala, o Design Systems. Il nostro è un presente in cui iniziamo a prendere atto anche delle crepe generate lungo il cammino dell’innovazione dall’industria tech e della gig economy nell’ultimo decennio. Oltre a tutti i benefici che questo decennio ha dato alla nostra professione, quali lezioni possiamo trarre osservando in retrospettiva anche gli impatti negativi di questi prodotti e servizi?
E parlando di prodotti e servizi che sono stati accuratamente progettati, dal modello di business fino alla micro-interazione sui bottoni delle reactions, che ruolo abbiamo come designer?
O, meglio, che ruolo vogliamo avere, ora che abbiamo l’opportunità di vedere e mettere sulla bilancia anche i problemi generati dall’innovazione?
“Designers and programmers are great at inventing software. We obsess over every aspect of that process: the tech we use, our methodology, the way it looks, and how it performs. Unfortunately we’re not nearly as obsessed with what happens after that, when people integrate our products into the real world.”
— Jason Fried, CEO di Basecamp, “Move slowly and fix things”
“The current generation of designers have spent their careers learning how to work faster and faster and faster. And while there’s certainly something to be said for speed, excessive speed tends to blur one’s purpose. To get products through that gate before anyone noticed what they were and how foul they smelled. Because we broke some things. It’s one thing to break a database, but when that database holds the keys to interpersonal relationships the database isn’t the only thing that breaks.”
— Mike Monteiro, “Design’s Lost Generation“
Un posto al tavolo delle decisioni. Per farne cosa?
Un altro leitmotiv degli ultimi 5 danni, quantomeno internamente alla comunità di pratica del design, è stato quello del rapporto con il business e dell’ottenere un posto al tavolo delle decisioni (“seat at the table” nel gergo anglosassone).
Il fatto che aziende come Airbnb abbiano un designer come co-founder, e quelle come Uber, Spotify o Zalando abbiano team di design numerosi e super competenti, è evidenza del fatto che il design sia riconosciuto come una componente chiave dell’innovazione, per creare prodotti e servizi che davvero siano efficaci e vengano usati dalle persone.
Questo maggiore legame con il business tuttavia richiede ai designer un’attenzione forte e costante nel bilanciare le necessità del business con quelle degli utenti, domandandosi le conseguenze di ottimizzare le soluzioni verso determinate metriche. Ciò che misuriamo corrisponde spesso ciò a cui diamo valore, o provocando ancora di più e citando Kim Goodwin “the revenue model is the biggest design decisions anyone makes”.
Per questo servono designer che si facciano co-autori e interpreti della strategia aziendale oltre a designer che siano eccellenti esecutori e ottimizzatori di quelle strategia. Servono designer che siedano fianco a fianco con business, marketing e tecnologia, per contribuire a modellare i servizi e i prodotti che intendiamo mettere in mano alle persone, affinché il modello stesso e la strategia siano human-centered, non solo l’interfaccia finale.
Il rischio è altrimenti quello che a volte possiamo già osservare oggi: prodotti progettati ed eseguiti in modo spettacolare, ma che nascondono dark-pattern per migliorare gli acquisti, o inducono meccaniche di dipendenza per ottimizzare il consumo di contenuti, o che semplificano servizi di uso comune, come l’ordinare la cena a domicilio, ma con dei costi sociali nascosti.
Verso un design più responsabile.
Pensando al futuro e alla nuova decade che inizia, il mio auspicio per il design è di maggiore responsabilità, nel senso di maggiore consapevolezza della complessità che ci circonda e maggiore umiltà nell’ammettere che ci sono zone grigie e angoli bui nella tecnologia, nell’innovazione e nei modelli di business che guidano questa innovazione. Questo significa mettere in discussione gli strumenti che utilizziamo, riguardarli e rivalutarli alla luce della nuova complessità che ci troviamo ad affrontare e dei dubbi che un decennio di move fast and break things ha sollevato ed esposto a tutti.
“The individuals who create some of the most oppressive digital systems are mostly good people. They are doing good work, for good reasons, and yet their creations can turn against us without anyone purposefully willing it. Everyone knows that our tech should be good, but we struggle to understand how to make that happen. We need a methodology that works. We need a set of tools.”
— Alan Cooper, inventore delle Personas, “Ancestry Thinking”
Vuol dire sfruttare le capacità fondamentali del design, come la visualizzazione, per far emergere le zone d’ombra, le porzioni di progetto che potrebbero nascondere dei problemi o prestarsi a utilizzi nocivi o di abuso.
Senza la presunzione di trovare soluzioni, ma con il fermo intento di mettere in mostra le debolezze, le incertezze, le cose che non sappiamo di non sapere, le esclusioni che stiamo facendo anche inconsapevolmente.
“When you call something an edge case, you’re really just defining the limits of what you care about.”
— Eric Meyer, co-autore di “Design for real life”
L’opportunità del design di lavorare nelle fasi iniziali del progetto, quando si fanno prototipi, quando si fa ricerca e si validano le idee, è un privilegio da cui trarre maggior beneficio e da utilizzare con maggiore responsabilità: in questa fase è possibile cambiare il corso di un progetto, è possibile influenzare e supportare le decisioni di business (anzi, è precisamente il ruolo del design raccogliere evidenze insieme alle persone per abilitare decisioni strategiche), è possibile aiutare la scelta delle tecnologie abilitanti e lavorare insieme ai reparti legal e privacy per interrogarsi sulle implicazioni del servizio che stiamo progettando.
Spesso è la fase più entusiasmante dei progetti, proprio per la sua ampiezza, per il pensiero divergente che attiva e per le molteplici opportunità di modellare un servizio o un prodotto nuovo, da rilasciare al mondo. L’auspicio è unire a questa motivazione anche una motivazione di contributo e di responsabilità, per dare un’impronta, per portare al tavolo delle domande, per creare gli spazi per indagare i problemi e gli scenari prima di pensare ad efficientare le soluzioni.
Conversazioni più ampie e più profonde.
A livello di comunità di pratica, l’auspicio per il futuro, ma anche un’esortazione, è costruire e avviare conversazioni più ampie e più profonde.
C’è bisogno di allargare la discussione e il confronto. Quella del design è ed è stata una comunità troppo autoreferenziale fino a oggi, secondo me, e troppo concentrata su se stessa. Gli stereotipi della relazione conflittuale design-sviluppo o design-business sono triti e ritriti, e hanno solo contribuito ad un notevole ritardo nell’ibridare i metodi del design con quelli dell’Agile, o ad attivare conversazioni di più alto livello tra design strategico e business.
C’è bisogno di costruire relazioni e alleanze, di costruire ponti e non muri. C’è bisogno di coinvolgere ed essere coinvolti, come designer, in quei dialoghi che determinano come si fa innovazione e come lavorare insieme per dare alle persone servizi e prodotti migliori.
C’è bisogno inoltre di aprirci a tematiche esterne e lasciarci contaminare, lasciarci ispirare. Per tutto il 2020 in Tangible abbiamo creato eventi in streaming in questa direzione, per parlare con persone e professionisti di altri settori e approfondire altri temi, dalle tecnologie assistive, alla data literacy, alle fake news e al debunking, alla comunicazione inclusiva. E faremo altrettanto nel 2021.
In questo dobbiamo riscoprire la posizione di umiltà e curiosità proprie della ricerca, in cui l’obiettivo è la costruzione di senso, il comprendere. Siamo curiosi per ciò che corre nei binari a fianco ai nostri, soprattutto se ci mancano gli strumenti per analizzarlo e comprenderlo appieno. Infine, c’è bisogno di conversazioni più profonde, che si sgancino dalla forma, dall’estetica e anche dai metodi e dai processi, per arrivare a parlare, in contesti allargati, ibridi e plurali, del perchè dei servizi e dei prodotti che stiamo progettando, e del come possiamo allineare il nostro lavoro con e per le persone al mondo che desideriamo.
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