Thinking
Uno uxday di consigli pratici, casi di studio reali e, mi dicono, una strigliatina
Venerdì scorso ho parlato di ethical design e, in sintesi, posso dire che è un faro da seguire più che un obiettivo da raggiungere. Ci indica una strada in cui troviamo il senso del nostro lavoro. E infatti, a ben vedere, di ethical design abbiamo parlato tutte e tutti in questa edizione di uxday.
Erano 4 anni che aspettavo di tornare a una conferenza di settore dal vivo e finalmente l’occasione è arrivata con uxday 2023. Programmata per fine aprile, la terribile alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna (e Faenza in particolare) ne ha determinato il rinvio a questo 29 settembre. Inizio questo post annotando intenzionalmente questi due dettagli per ricordarmi e ricordarci del periodo storico in cui si è svolto questo appuntamento: il post-pandemia, il secondo anno di guerra ai confini dell’Europa, gli eventi climatici devastanti così frequenti da non poter essere più definiti straordinari.
Arrivo a Faenza e la trovo bellissima, anche se due chiacchiere con Fullo mi confermano che i problemi causati dal fango seccato si sentono ma non si vedono. A maggior ragione, trovo davvero encomiabile l’organizzazione accurata del GrUSP, che hanno creato le condizioni per una giornata dalle misure perfette, in cui ho potuto gustare con calma e senza stress tutto il valore aggiunto di un evento vissuto in presenza: i saluti a colleghi e professionisti che speravo di rivedere, il feedback dal vivo e le discussioni che proseguono nei corridoi e nelle pause, lo spritz finale per scambiarsi informazioni su come stiamo lavorando, su cosa sarebbe bello rendere pubblico e condiviso, magari grazie a un’iniziativa nata in seno alla nostra community. O anche solo per sapere come va e come stiamo.
Tanto “how to”
Ho lasciato decantare un po’ i contenuti che ho ascoltato e mi sono accorta che, nel loro insieme, mi hanno fatto lo stesso effetto che ho provato quando ho rivisto i miei nipoti dopo un anno di distanza forzata: li ricordavo bambini e li rivedo ragazzini o quasi adulti.
A uxday, ho sentito parlare della nostra disciplina in un modo che finalmente non ha bisogno di parole per giustificare la sua esistenza: non c’è stato neanche un talk in cui qualcuno ha dovuto spiegare (forse anche a sé stesso) che cos’è la user experience, perché è importante e quali sono i suoi processi, anche perché oggi l’audience è fatta di persone che hanno potuto scegliere di studiare UX all’università o nei tanti corsi e master specializzati.
Perdonatemi la parentesi boomer, ma ho bisogno di appuntarmi anche questo: fino a qualche anno fa la situazione era ben diversa.
Io sono una nipotina di Munari, Castiglioni e Sottsass, ma anche di Carson, Spiekermann, Norman e Rams. Abbiamo studiato in scuole in cui la UX non esisteva e neanche lo smartphone. Esisteva il graphic design ed era tanto se per lavorare con un computer riuscivamo a prenotarne uno in laboratorio (tanto che spesso si facevano progetti in gruppo perché c’era un computer ogni 4 persone circa). Di interaction si occupavano ingegneri e sviluppatori, e del resto le tecnologie non erano ancora concepite come gli strumenti pervasivi che sarebbero diventati.
Quindi, mentre fino a qualche anno fa era necessario definire la disciplina, il suo valore, i suoi metodi, le sue cross-competenze, e avevamo anche bisogno di capire come proporla e venderla al nostro mercato, in questo uxday non c’è stato alcun bisogno di questo tipo di contenuto.
Nei 9 talk della giornata, presentati da 11 speaker (7 donne e 4 uomini) ho sentito condividere esperienze reali, buone pratiche e tanti consigli, da quello tecnico a quello “sul campo”. Di tutti ho apprezzato in particolare la spontanea propensione alla “mediazione culturale”: l’informazione tecnica spiegata senza spocchia, con termini comprensibili da chi potrebbe non conoscerla, per preparare un glossario comune e condiviso su cui è possibile lavorare in squadra, ognuno con le sue competenze, il suo talento e la sua motivazione.
Ha iniziato Luca Rosati condividendo alcune tecniche di progettazione di architetture delle informazioni modulari, che tengano conto della frammentarietà cui oggi sono soggette, perché “viaggiano” attraverso molteplici canali e punti di contatto.
Aggiungo qui una personale riflessione agli spunti di Luca: per progettarle è importante comprendere chi ha il controllo di quei canali o touchpoints, quanto siano destinati a digitalizzarsi o dematerializzarsi e infine quale sia la durata nel tempo di quelle informazioni.
La parola “architettura” continua a suggerire un senso di fisicità e completezza che mi suona ogni anno più antitetico rispetto alla mutevolezza e velocità con cui cambiano le tecnologie e le nostre interazioni con esse.
Maria Elena Calisi, UX writer specializzata in microcopy, ha raccontato la sua esperienza professionale interculturale all’estero e la difficoltà di trovare le parole e frasi migliori per indicare agli utenti di un servizio digitale quali sono le azioni che può fare, usando una lingua che non è la lingua madre.
Tra i vari esempi che ha portato, uno riguardava un messaggio di controllo relativo a un’azione che l’utente avrebbe potuto compiere (un microtesto scritto male che più o meno si presentava così: “sei sicuro di non voler fare questa cosa?”) e ci ha invitato a proporre alternative. Una persona ha suggerito di toglierlo del tutto e questo intervento mi ha ricordato un consiglio che avevo ricevuto al mio primo talk (Whymca, maggio 2010).
Qui ci sono le 74 (sì, 74) slide che sono riuscita a presentare in 25 minuti (come ho fatto? boh), esponendomi a 10 minuti di domande. Spiegavo che step avrei seguito se mi avessero affidato il progetto di trasformare in un’app il defunto sito Monthly.info, all’epoca uno dei primi servizi digitali che ci consentiva di tenere traccia del ciclo mestruale. Un talk pieno di interfacce rosa e skeumorfiche che, Barbie, levati. Mi ricordo bene che dalla slide 61 avevo voluto lanciarmi una sfida (“La complichiamo?”) e una persona del pubblico mi aveva ammutolito chiedendomi “Ma perché invece non ti sei sfidata a semplificarla? È la sfida più difficile per chi fa design”.
Game, set, match.
I suggerimenti ricevuti e gli errori che avevo inconsapevolmente presentato li avevo raccolti in questo post (perdonate la formattazione, quel post arriva da un tempo in cui il mio blog aveva come sfondo una lavagna).
E tu. Tu, sviluppatore che mi facesti quella domanda diretta e sincera davanti a tutti, sappi che ancora adesso ti odio per avermi gelato così e ti amo per avermi dato una sveglia così grossa.
Il contenuto del talk di Valeria Salis, che lavora con gli amici di Sparkfabrik, sul green web li ho trovati totalmente allineati con il post Buone pratiche per un design(er) più green scritto da Frank.
Ho apprezzato in particolare i dati con cui ha introdotto il tema e le spiegazioni tecniche powered by Clippy per spiegare la differenza tra lossy e lossless e tra un’immagine webp e jpg. Immancabilmente (e quindi anche a uxday) quando parliamo di green web, sento borbottare che internet e le tecnologie non sono i principali responsabili dell’inquinamento e del cambiamento climatico.
Sì, occhei. È vero che oggi il Net-Zero industry act fa riferimento a tecnologie per un’energia pulita e sembra quindi non riguardarci perché il web sembra avere un impatto residuale sulla crisi climatica. A mio avviso, però, il vero punto da cogliere qui è l’attenzione e sensibilizzazione su questi temi, perché alcune delle tecnologie che stiamo adottando sono tutto tranne che sostenibili.
Chi oggi si impegna a progettare e sviluppare siti, app, webapp e software il più possibile pulito dimostra di sapere quali sono le sfide che stanno arrivando dal futuro e su cui è meglio formarsi, se non altro per rimanere professionalmente rilevanti. E comunque, io penso che arriveranno molto presto regolamenti internazionali simili a GDPR e Accessibility Act che ci indicheranno quali standard dovremo rispettare per rendere anche il web un luogo a emissioni zero entro il 2050. E magari chissà, arriverà anche il digital euro.
Michela Frecchiami, UX Designer di Nebulab, ha raccontato con grande sincerità le difficoltà e le lezioni apprese lavorando a un progetto destinato al mercato asiatico, in un team cross-culturale. Grazie al suo talk, ho anche scoperto l’esistenza dell’acronimo W.E.I.R.D., che tra parentesi esiste da oltre 10 anni e che nel 2020 è diventato un libro, in cui lo psicologo Joseph Henrich dimostra che la stragrande maggioranza delle studi che leggiamo è basato su ricerche fatte su un campione di persone occidentali, che hanno studiato, che vivono in un mondo industrializzato, ricche e democratiche (Western, Educated, Industrialized, Rich, and Democratic).
Le implicazioni e le conseguenze di questo studio sono direttamente collegate a una parte del talk di Matteo Tibolla, UX researcher in Teamsystem, che ha condiviso alcune tecniche sia di base che avanzate per impostare una buona attività di ricerca con le persone. Un campione di ricerca WEIRD è un errore classico dovuto a bias difficili da riconoscere e superare.
Guardando me stessa, il razzismo interiorizzato è uno dei bias che faccio (e mi costa) più fatica a riconoscere, ammettere, accettare e, quando ci riesco, superare.
Danilo Africano e Federica Mucci, di Abilio, hanno portato il caso di studio Quimmo, piattaforma per la compravendita di immobili.
Per me un’attività di ricerca ha senso quando chi la svolge sa se esistono delle KPI e delle best practices di riferimento e si impegna a tenerne conto. Abilio ha riprogettato alcune interazioni di Quimmo analizzando i vari tassi di conversione prima e dopo il redesign; e usato la ricerca per capire perché alcuni di quelli avessero subito un calo di performance. Del loro racconto, mi ha stupito che siano riusciti a seguire un approccio mobile first.
In particolare, lo step di invio di un’offerta è talmente complicato e frammentato che hanno preferito farlo completare con il supporto del customer service.
Maria Sole Biondi e Sara Fazzini di Belka hanno condiviso come descrivono le attività di ricerca agli stakeholders, adeguando linguaggio e presentazioni in base a chi hanno di fronte.
Hanno proposto tre tipologie di stakeholders (neofita, entusiasta, scettico) e per ognuno suggerito tips & tricks utili a costruire fiducia e valore, disinnescando problemi e insidie.
Tutto dedicato all’accessibilità il talk di Girolamo Giannatempo, di Paper Plane Factory. L’approccio all’accessibilità e alla disabilità che ha presentato è totalmente allineato al nostro.
Proprio per questo, con Girolamo e altri ci siamo sentiti e scritti anche a fine conferenza per capire in che modo mettere a fattor comune alcune informazioni utili che rispondono alla domanda “Come si fa un test di accessibilità?”
Diversity, equity e inclusion e ethical design: partiamo da noi
A me è spettato il compito di chiudere questa giornata. Nel mio talk ho provato a unire alcuni puntini che avevo ascoltato, perché sono profondamente legati al percorso che abbiamo fatto in Tangible e al tema ethical design, su cui la nostra community sta discutendo da anni.
Ho raccontato di come abbiamo incorporato ethical design nel nostro DNA e di come, nel passaggio tra il dire e il fare, abbiamo spesso avuto la sensazione di finire in un sottosopra come quello di Strangers Things (per questo ho scelto il titolo Il Grande Disincanto).
Lungo questo percorso, stiamo scoprendo gli impatti e le sorprese, positivi e negativi, il più delle volte imprevisti e imprevedibili. Definire come lavoriamo per progettare secondo i principi etici dichiarati negli obiettivi di beneficio comune del nostro statuto, monitorare quello che stiamo facendo davvero, investire in formazione è un processo che in qualche modo è da ripetere per ogni aspetto di ethical design che vogliamo imparare a progettare e garantire, almeno fino a dove abbiamo governo o controllo.
Dove non possiamo avere questo controllo, abbiamo due opzioni:
- nel contesto dei progetti, possiamo esplorare aspetti di ethical design parlandone in modo più o meno esplicito in base agli stakeholder coinvolti
- oltre i progetti, possiamo agire con iniziative culturali, rivolti alla nostra community e al nostro mercato.
Da quando abbiamo iniziato a raccogliere feedback strutturato dai nostri clienti, ci siamo resi conto che le conversazioni su ethical design sono strane, un po’ come una volta loro erano quelle sulla UX.
Una volta chiedevamo: posso fare ricerca? Oggi finalmente abbiamo trovato il modo di farla e il problema semmai è diventato capire che cosa farci.
Dato che ethical design è un contenitore di aspetti della progettazione che sono di varia ampiezza e complessità (per dirne uno, dallo specifico “accessibilità” al più sistemico “diversità, equità e inclusione”), oggi pensiamo che sia meglio parlare di ethical design evitando un approccio dogmatico o ideologico, evitando giudizi e partendo dal modello di business e organizzativo su cui ethical design andrà ad impattare. Sarà banale, ma ricordiamoci che siamo più credibili quando abbiamo esperienza diretta e concreta - non solo teorica - di ciò su cui invitiamo altri a impegnarsi.
Ho poi condiviso i risultati del questionario che avevo preparato per capire che cosa intendiamo per Diversity Equity e Inclusion ed Ethical Design e come ci stiamo lavorando. L’ho inviato ad aprile e hanno risposto 138 persone, che ringrazio tutte.
Quello che abbiamo sul piatto per ora è abbastanza chiaro. Se quando parliamo di ethical design ci stiamo riferendo tutti alle stesse cose, sul come farlo stiamo andando al buio:
- facciamo ancora troppa poca ricerca,
- quando la facciamo non riflettiamo su quali siano le evidenze o le misure di cui avremo bisogno per capire dove stiamo andando,
- usiamo ancora le solite scuse (non c’è tempo, non c’è budget, non mi danno il permesso).
Eppure abbiamo davvero tante informazioni per fare anche i primi piccoli passi.
In chiusura, ho dato due consigli che volevo davvero spiccioli e operativi in modo che tutti potessero farli davvero, questi benedetti "primi passi". Sarei davvero felice di sapere se qualcuno ci ha provato e com’è andata, quindi contattatemi se avete dubbi su cosa fare. Sono sicura di avere più domande che risposte, ma a volte un cervello in prestito può aiutare davvero a sbloccarsi o riflettere.
Quindi?
Sfidatevi a sfruttare ogni occasione sia nei progetti che nelle attività di studio e formazione professionale che nella vita personale, per esempio quando usiamo le tecnologie anche per motivi privati.
Prepariamoci a un viaggio infinito e facciamo questi primi piccoli passi. Partiamo da noi.
Breve storia felice
Visto che fino a qui temo di aver scritto più di faticahe e dolori, per dare loro un senso, aggiungo il racconto di una piccola/grande soddisfazione che ci ha dato la progettazione etica, con l’auspicio che possa essere da stimolo a iniziare questo viaggio.
È arrivato a sorpresa, un giorno che stavo tenendo una lezione sull’accessibilità digitale al Master in Accessibilità nei Media, nelle Arti e nella Cultura (AMAC) per l'Università di Macerata. La lezione si stava svolgendo da remoto e non avevo idea che diversi studenti fossero ipo o non vedenti. Nessuno dei partecipanti conosceva le tecniche per progettare siti e app accessibili, anche se gli studenti non vedenti stavano interagendo con me grazie ai loro screenreader.
A un certo punto della mia lezione avevo spiegato come navigare un sito da tastiera oppure come attivare lo screenreader e avevo invitato a navigare sul sito Aeroporto di Bologna che avevamo progettato e che tutt’oggi stiamo manutenendo. A quel punto, le persone non vedenti sono rimaste prima interdette e poi sconcertate dalla quantità di informazioni che non sapevano essere disponibili su un sito di quel tipo. Una studentessa ha iniziato a leggere i voli disponibili in giornata e condiviso con i compagni di corso quelli che avrebbe volentieri preso da Bologna (visto che vive lì), per sognare i suoi prossimi viaggi.
Forse potete immaginare la gioia che ho provato io e poi il team di progetto quando ho raccontato loro questo episodio.
Vi auguro di provarla in prima persona, perché dà veramente un senso alle tante ore che passiamo davanti allo schermo, impegnandoci a capire come rendere questo o quel servizio semplice, fruibile e piacevole da usare per persone che non conosceremo mai.
Save the date: non perderti il workshop su ethical design con Trine Falbe
Poco più su scrivevo che uno dei modi di influenzare il cambiamento in ciò su cui non abbiamo controllo diretto è quello di sensibilizzare la community e gli stakeholders su questi temi.
È da un po’ di mesi che stiamo portando in giro il nostro Ethical Compass, lo abbiamo condiviso anche durante uxday grazie al workshop facilitato da Anna e Vale.
L’ultimo appuntamento italiano del 2023 per provare a mettere in pratica ethical design lo abbiamo organizzato per il 17 novembre, invitando Trine Falbe a una giornata di formazione hands-on: Ethics by Design workshop.
Se vuoi studiare e provare metodi e strumenti per applicare principi etici nei progetti gestendoli con la stessa scioltezza con cui prepari un kickoff meeting, un codesign o un workshop di raccolta requisiti, allora non mancare. Sul sito trovi tutte le informazioni e puoi comprare il tuo biglietto. Ti aspettiamo!
Grazie a Tommaso Baldovino per la foto che abbiamo usato in copertina.
Per approfondire
Il sito ufficiale di UXDay 2023
I talk e i feedback di UXDay 2023 su Joindn
Il resoconto post conferenza di Tommaso Baldovino
Lettura consigliata: The infinite game, di Simon Sinek