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Cosa ci ha insegnato Fuori Rete sul digital divide sociale

Un anno di ascolto, confronto e nuove lenti per immaginare servizi più inclusivi e umani

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Collage di screenshot degli incontri online di Fuori Rete con ospiti, designer e interpreti LIS che parlano di digital divide sociale.

All’inizio dell’anno, quando abbiamo deciso il tema da approfondire durante Inspiration, ci siamo fatti una domanda: cosa significa oggi parlare di digital divide?
Sapevamo che il divario infrastrutturale, ossia la mancanza di rete, di device, di accesso, era solo una parte del problema. L’altra faccia, quella che volevamo esplorare, è più sottile e difficile da vedere: riguarda la fiducia, l’autonomia, la comprensione, il sentirsi o meno inclusi dai servizi digitali che ormai permeano la vita quotidiana.

Per affrontare questo tema, abbiamo scelto di non cercare esperti “di mestiere”, ma voci. Voci che ogni giorno vivono quel divario, o che cercano di ridurlo. Abbiamo deciso di ascoltare prima di progettare. Di raccogliere storie, esperienze e punti di vista spesso lontani tra loro, ma attraversati dalla stessa tensione: chi resta fuori dalla digitalizzazione, e perché?

Non è stato un viaggio semplice. Abbiamo ascoltato storie dure, osservato contraddizioni, raccolto domande scomode. Non abbiamo trovato risposte definitive, ma qualcosa di più prezioso: nuove lenti con cui guardare il nostro lavoro. E soprattutto, la conferma che questo tema ci riguarda tutte e tutti, ogni giorno, anche quando non ce ne accorgiamo.

Per noi che progettiamo servizi digitali, questi incontri sono stati anche uno specchio che ci ha aiutato a capire dove i nostri servizi rischiano di creare distanza invece di costruire accesso.
Ci hanno mostrato cosa possiamo fare meglio, dove stiamo fallendo e quali responsabilità ci assumiamo, spesso senza rendercene conto.

In questo articolo condividiamo alcuni spunti: non conclusioni, ma aperture. Indicazioni che speriamo possano accompagnare chi progetta, amministra o si interroga sul ruolo del digitale nelle relazioni umane.

Per non dimenticare cosa abbiamo imparato

Il digital divide è sistemico, non generazionale

Il divario digitale non riguarda solo chi è anziano o non ha accesso a internet. Per le persone anziane è noto che molte tecnologie risultano ostiche e complicate, quasi uno stigma. Allo stesso tempo, anche le giovani generazioni ne fanno parte, spesso senza esserne consapevoli: pensano di conoscere bene la tecnologia, ma in realtà ignorano il potenziale dei loro dispositivi o l’accesso a molti servizi utili. Questo dimostra come il divario possa toccare anche chi consideriamo "nativo digitale".

È un fenomeno complesso e stratificato, alimentato da povertà educativa, barriere linguistiche, condizioni economiche precarie, tecnologie obsolete, sfiducia e paura. Non è un problema individuale, ma sociale. Non lo si affronta con soluzioni tecniche, ma con politiche di inclusione capaci di riconoscere e intrecciare queste variabili.

Stiamo lavorando con le scuole, entrando nelle classi quarte e quinte degli istituti superiori. I ragazzi sono molto bravi con i social, ma conoscono poco il potenziale dell’identità digitale. Spesso non sanno quante cose si possano fare con i loro strumenti, dall’identità digitale alla carta dello studente.

Senza relazione, non c’è inclusione

L’affiancamento umano è spesso l’unica via per rendere accessibile un servizio. I progetti di inclusione digitale, come Digitale Facile o Pan e Botoni, che funzionano meglio non sono quelli con la tecnologia più avanzata, ma quelli che sanno accogliere, ascoltare, rassicurare.

La presenza fisica (anche sul campo, al mercato o in spiaggia), costruisce fiducia, legami, senso di dignità. Non è un costo, ma un investimento invisibile nel capitale sociale.

Se non ci fosse questa relazione di fiducia, le persone non si esporrebbero mai. Non verrebbero a dirti che non capiscono. Il digitale può essere umiliante.

L’autonomia si costruisce con tempo, errori e appunti

Molti anziani non vogliono più “disturbare i figli” per ogni cosa digitale. Non chiedono soluzioni veloci, ma strumenti per capire e affrontare le difficoltà da soli.

I percorsi di inclusione digitale che risultano efficaci non si limitano a insegnare cosa fare con un'app, ma offrono strategie riutilizzabili, incoraggiano a sbagliare, a prendere appunti, a provare. È così che la tecnologia smette di fare paura e diventa davvero abilitante.

Alla fine del corso le signore ci mostrano i quaderni pieni di appunti, scritti a mano. È il loro modo per non perdere quello che hanno conquistato.

Ogni interfaccia è una scelta politica

Quando scegliamo un metodo di autenticazione o costruiamo un modulo per offrire assistenza, le valutazioni che facciamo o i dettagli che progettiamo possono rendere le interazioni così complicate da indurre molte persone a gettare la spugna.

Progettare un servizio significa decidere chi includere, chi escludere e a quali condizioni. Il design non è neutrale: riflette i bias di chi lo progetta e può rafforzare le disuguaglianze invece di ridurle. Un buon esercizio che può allenarci a non cadere involontariamente in questo schema è di non fermarsi ad una progettazione costruita su misura per le Personas e gli scenari “standard” individuati.
Usiamo invece quelli che nel nostro gergo definiamo edge case per trasformare le Personas in archetipi più realistici e sfidanti:
che cosa succede a un flusso di interazioni se la Persona primaria per cui è progettato non parla la mia lingua? non ha i documenti in regola? ha perso gli occhiali e ora non vede bene? E che cosa succede se immaginiamo che a interagire sia una persona migrante, una persona in carcere o senza dimora?
È lì che si misura il valore pubblico del digitale.

Se pensiamo che il digitale sia la soluzione per tutti, stiamo dando per scontato che tutti abbiano le stesse condizioni per accedervi. Non è così. E chi progetta ha un potere enorme.

Educare non basta, serve accompagnare

Viviamo in un mondo dove l’informazione è ovunque, ma la comprensione è fragile. Chi ha meno strumenti rischia di sentirsi escluso o sopraffatto. Serve una formazione continua, ma anche creativa e accessibile.

Non è solo questione di corsi, ma di presenza, linguaggi adatti, esempi pratici, varietà di formati. La vera fame non è solo di competenze, ma di qualcuno che ti aiuti a non sentirti solo nel cambiamento.

Il problema non è solo la mancanza di competenze, ma la solitudine digitale. Serve qualcuno che stia lì, che ti aiuti anche solo a orientarti.

Nessuno si salva da solo, nemmeno nel digitale

Nessuna istituzione può affrontare il digital divide da sola. Le iniziative che funzionano nascono quando PA, enti del terzo settore, associazioni locali e community di specialisti (designer e tech) collaborano. Ma manca ancora spesso un tassello fondamentale: coinvolgere davvero le persone più fragili nella progettazione dei servizi.

Non come destinatari, ma come co-autori. Come beta tester di una società che sia, davvero, per tutti.

Le persone più fragili non sono coinvolte nella progettazione, e questo è un errore enorme. Dovrebbero essere le prime a testare i servizi, non le ultime.

Serve anche un fallback fisico

Se il digital divide sociale descrive distanze, inaccessibilità ed esclusione, la capacità di visione d’insieme che ti dà il service design consente di prevedere meglio quegli effetti e contrastarli.

Progettare esperienze tra fisico e digitale, descrivendo scenari come quelli che abbiamo scoperto esplorando questo tema, può aiutarci a costruire ponti che riducano le distanze e le disuguaglianze.

Difficilmente un sistema informatizzato - o quantomeno un sistema che non tenga conto delle fragilità - può offrire lo stesso livello di accoglienza, accompagnamento e consigli che può dare una persona.

Cosa abbiamo fatto, davvero

Ogni incontro di Fuori Rete è stato prima di tutto un tempo dedicato all’ascolto, all’incontro, alla costruzione di fiducia. Non era un webinar, non era un contenuto da calendario. Era un atto di cura. E come tutti gli atti di cura, ha generato connessioni. Tra persone, tra storie, tra domande.

Abbiamo scelto di destinare parte dei compensi degli ospiti a sostegno di realtà impegnate in progetti di inclusione e giustizia sociale. In totale abbiamo donato oltre mille euro: circa la metà a WeWorld, in particolare per le iniziative a supporto dell’emergenza a Gaza, e il resto a realtà locali come Progetto Itaca Rimini, Caritas e Legalo al Cuore Onlus.
In diversi casi sono stati gli stessi ospiti a indicarci un progetto da sostenere; in altri abbiamo scelto insieme di indirizzare il contributo verso WeWorld.

Grazie a chi ha parlato, a chi ha ascoltato, a chi ha contribuito a far circolare questi contenuti. Grazie a chi ha fatto domande scomode, a chi ha portato esempi concreti, a chi ci ha aiutato a vedere ciò che normalmente resta fuori campo.
Fare capitale sociale oggi significa anche questo: prendersi il tempo per costruire relazioni, restituire valore, generare fiducia
. Anche nel mondo digitale. Anche tra chi è molto diverso da noi.

E ora?

Non abbiamo trovato una risposta univoca al digital divide sociale.
Ma abbiamo scoperto che la vera domanda non è solo “chi resta fuori?”, ma anche “cosa possiamo fare, concretamente, per accorciare le distanze?
In controluce resta anche un’altra domanda aperta, che tocca opportunisticamente anche il business: se le persone escluse restano fuori, sono anche utenti e clienti persi. Non è la domanda principale che ci guida, ma è un segnale che ci ricorda quanto il divario digitale abbia impatti che vanno oltre l’inclusione sociale.

Inspiration non è una rubrica. È un esercizio di ascolto che cambia con noi. Un modo per tenere aperto uno spazio di comunità, riflessione e responsabilità. Vi invitiamo a rivedere gli incontri, a segnalarci una storia, a raccontarci la vostra esperienza.
E se vi riconoscete in qualcuna delle voci che abbiamo ospitato, o in qualcuna delle difficoltà raccontate, sappiate che non siete soli/e.
E che fare rete significa anche questo: creare spazi dove chi di solito non ha voce, possa parlare.

Il digitale può includere o escludere, a seconda di come viene progettato. Noi continueremo a chiederci, come designer, come cittadini e come persone, quale tipo di digitale stiamo contribuendo a costruire.