Thinking

Esperienze intelligenti oltre il chatbot

Le esperienze intelligenti non si limitano a rispondere, ma leggono il contesto, anticipano i bisogni e accompagnano le persone con semplicità. In questo articolo esploriamo come progettare interazioni AI davvero utili: adattive, coerenti, integrate

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Scritto da
Claudio Guerra
Vista subacquea di un’onda che si muove fluida e potente, con giochi di luce e riflessi blu che evocano profondità e movimento

Negli ultimi mesi si è parlato tanto di AI e design. Ma mentre i feed si riempivano di chatbot generici e demo spettacolari, una domanda ci ha accompagnato in diversi progetti: cosa significa davvero progettare un’esperienza intelligente?

Non ci riferiamo a un assistente che risponde bene a un prompt. Né a una funzione “smart” che spunta in un’interfaccia già complessa. Ma a un sistema che capisce cosa vogliamo fare, interpreta il contesto e ci aiuta prima ancora che glielo chiediamo.

Un’intelligenza che non si impone, ma accompagna. Che non sorprende, ma semplifica. Che non si vede, ma si sente.

L’AI utile è quella contestuale e che sa stare al suo posto

Il rischio più comune, oggi, è quello di rincorrere le novità tecnologiche più che i bisogni delle persone. In molte esperienze digitali, l’AI viene introdotta come un’aggiunta esteriore, un chatbot generico, un assistente che replica i comandi vocali, una funzione “intelligente” che poco si adatta al contesto.

Ma progettare con l’AI non significa aggiungere una feature. Significa ripensare le interazioni a partire da ciò che questa tecnologia può fare di unico: interpretare il contesto, apprendere dai dati, agire in modo dinamico.Il punto non è se usare l’intelligenza artificiale, ma dove e come porti valore reale a utenti e organizzazioni.

E quando porta valore, l’AI non si mette in mostra: è più efficace quando è invisibile, ma presente. Quando non interrompe, ma completa. Quando agisce in modo contestuale, basandosi sul momento, sull’ambiente e sulle micro-intenzioni dell’utente. Un’intelligenza progettata per essere percepita, non ostentata, che si traduce in interazioni che fanno risparmiare tempo, riducono l’attrito e anticipano bisogni reali.

Progettare un’AI contestuale significa quindi uscire dalla logica “prompt → risposta” e ragionare in termini di collaborazione e dialogo tra utente e sistema. Significa nutrire l’AI con esempi realistici: non solo parole, ma situazioni, indizi, segnali impliciti.

È anche una questione di equilibrio: tra un’AI che suggerisce e accompagna, e un’AI che decide e agisce. In ogni caso, è importante che l’utente mantenga una sensazione di controllo e comprensione. L’intelligenza deve essere una compagna silenziosa, non un’entità misteriosa.

Intent-based interaction: progettare per l’obiettivo, non per il comando

Molte delle interfacce AI oggi sono ancora costruite secondo una logica command-based: l’utente formula una richiesta (più o meno bene), e il sistema esegue.Ma non è così che funziona l’intelligenza nella vita reale. Un cameriere attento non ti chiede "vuole il menù?", ma intuisce se lo stai cercando. 

È il passaggio da una UX costruita su flussi predefiniti a una esperienza che si adatta dinamicamente a ciò che serve in quel momento. Una funzionalità davvero utile non ti costringe a cercare il comando giusto: capisce cosa vuoi ottenere, integrandosi senza attrito nell’esperienza.

È qui che entra in gioco l’approccio intent-based: progettare per l’obiettivo, non per la forma della richiesta. Per farlo, serve leggere il contesto, mappare scenari d’uso realistici, allenare l’AI a suggerire, non solo rispondere.

Significa ripensare i touchpoint, non aggiungere chatbot ovunque, e a volte, il modo più efficace per farlo non è rivoluzionare l’esperienza, ma agire in modo mirato, lì dove serve davvero.

Micro-interazioni intelligenti, silenziose, efficaci

Non serve sempre una nuova interfaccia o una conversazione completa. Spesso, è nelle micro-interazioni intelligenti che l’AI fa davvero la differenza: piccole automazioni, suggerimenti contestuali, compilazioni dinamiche, ordinamenti adattivi.

Sono interventi invisibili ma preziosi, che non attirano attenzione su di sé, ma migliorano silenziosamente l’esperienza. Nel loro insieme, raccontano un’intelligenza che funziona perché si integra, ed è la somma di questi momenti che costruisce la percezione di un prodotto intelligente.

E proprio perché non si impongono, devono essere visivamente coerenti, logicamente armonizzati, parte integrante di una narrazione fluida. L’obiettivo non è stupire, ma semplificare.

Assistiva o agentiva?

Nel progettare esperienze AI powered, è utile distinguere tra:

  • AI assistiva: propone, suggerisce, facilita.
  • AI agentiva: prende decisioni, guida, automatizza.

Non c’è una soluzione giusta in assoluto. Ma c’è un equilibrio da trovare, che cambia in base al contesto. In scenari delicati, l’utente vorrà tenere il controllo. In altri, sarà felice di delegare.
Il compito del design è regolare questa relazione: dare fiducia, rendere comprensibile, evitare che l’intelligenza si trasformi in opacità.

Meme in stile cartoon di un personaggio in difficoltà davanti a due pulsanti, uno con scritto “assistita” e uno “agentiva”, che simboleggiano il dilemma tra controllo umano e automazione dell’AI.

Non solo prompt: verso una progettazione dell’intelligenza

Troppo spesso si pensa che basti progettare l’interfaccia. Ma con l’AI, conta ancora di più ciò che c’è dietro: i dati, gli esempi, i casi d’uso con cui le si insegna a riconoscere i contesti.
Chi progetta ha un ruolo chiave: definire gli scenari, prototipare i comportamenti, istruire il sistema su cosa ci si aspetta da lui.

Progettare esperienze AI powered non significa solo scegliere dove metterla. Significa allenare il sistema con prompt realistici, costruiti a partire da scenari d’uso e bisogni reali. Significa testare, osservare, correggere.

E soprattutto, significa non lasciare all’AI il compito di dettare la forma dell’esperienza. Il design resta uno strumento fondamentale per dare forma all’intelligenza: per canalizzarne le potenzialità, risolverne le ambiguità, renderla usabile e affidabile.

In Tangible lo stiamo facendo in diversi progetti. E abbiamo imparato che non esiste una formula magica.
Ma c’è un principio che ci guida sempre: partire dalle persone. Dai loro contesti, dai loro obiettivi, dalle loro aspettative.

Solo così l’AI inizia a essere una forma concreta di innovazione.